Genialità


David Strauss. L’uomo di fede e lo scrittore (Considerazioni inattuali I, 1873)

10.

Ma l'autore geniale si rivela non soltanto nella semplicità e nella chiarezza dell'espressione: la sua forza esuberante gioca con la sua materia, anche se questa è pericolosa e difficile. Nessuno cammina con passo sicuro su una strada sconosciuta e interrotta da mille precipizi: ma il genio corre agilmente e con balzi temerari o leggiadri per un tale sentiero, e irride l'attenta e peritosa cautela dei passi.

Sull’utilità e il danno della storia per la vita (Considerazioni inattuali II, 1874)

4.

Per quanto il giudizio e il gusto dei singoli possano essere diventati qua e là più delicati e più sublimati — ciò non compensa il genio fecondo: lo tormenta il dover parlare quasi solo ad una setta e di non essere più necessario all'interno del suo popolo. Forse ora sotterra il suo tesoro più volentieri, poiché prova ripugnanza nell'essere presuntuosamente appoggiato da una setta, mentre il suo cuore è colmo di compassione verso tutti. L'istinto del popolo non lo soccorre più; è inutile stendergli le braccia nostalgicamente. Cosa gli rimane ancora se non rivolgere il suo vivo rancore contro quell'incantesimo che lo inibisce, contro gli ostacoli costruiti nella cosiddetta cultura del suo popolo, per condannare quale giudice almeno ciò che è annientamento e avvilimento per lui, vivente e generante vita: così baratta la profonda cognizione del suo destino con il divino piacere del creatore e del benefattore, e termina la sua esistenza come solitario sapiente, come disgustato saggio.

Schopenhauer come educatore (Considerazioni inattuali III, 1874)

2.

V'è serenità solo dove c'è vittoria, e ciò vale sia per le opere dei veri pensatori che per ogni opera d'arte.

Per quanto il contenuto sia terribile e serio, come lo è appunto il problema dell'esistenza, l'opera avrà un effetto opprimente e tormentoso soltanto se il mezzo pensatore o il mezzo artista vi avrà effuso i vapori della propria insoddisfazione; mentre per l'uomo non vi sarà nulla di più gaio e di più bello che poter stare vicino ad uno di quei vittoriosi, che, proprio per aver pensato le cose più profonde, devono appunto amare ciò che è più vivo e, come saggi, infine, aver predisposizione al bello. Essi parlano veramente, non balbettano né chiacchierano a vanvera; essi si muovono e vivono realmente, non certo al modo di sinistre maschere, come sono soliti vivere gli uomini: perciò, nella loro vicinanza, ci sentiamo davvero umani e naturali e vorremmo esclamare come Goethe «che cosa meravigliosa e preziosa è un vivente! quanto adeguato alla sua condizione, quanto vero, quanto esistente!»…

Il genio non [deve] temere di entrare nella contraddizione più ostile con gli ordinamenti e le forme esistenti, se vuole mettere in piena luce l'ordine superiore e la verità che vivono in lui.

3.

Ogni uomo è solito trovare in se stesso una limitazione sia della sua attitudine che della sua volontà morale, che lo riempie di struggente desiderio e di malinconia; e, come dal sentimento della propria inclinazione al peccato aspira al Santo, così in quanto essere intellettuale, ha in sé un profondo anelito al Genio. Ecco la radice di ogni vera cultura; e intendendo con questo l'anelito degli uomini a rinascere come Santi o come Geni, so perfettamente che non c'è bisogno di essere buddisti per intendere questo mito. Quando troviamo il talento senza quell'anelito, nella cerchia degli scienziati o semplicemente nelle persone istruite, proviamo una certa avversione e ripugnanza; infatti presagiamo che tali uomini, con tutto il loro spirito, non favoriscono una cultura in divenire o la creazione del Genio che è lo scopo di ogni cultura ma anzi la ostacolano. E’ una condizione di indurimento, uguale per valore a quella virtuosità abitudinaria, fredda e orgogliosa di se stessa, che è la cosa che più di tutto è lontana e allontana dalla vera santità.

Il Genio, infatti, anela più profondamente alla santità, perché egli, dal suo osservatorio, ha visto più lontano e più chiaramente di ogni altro uomo, fino alla conciliazione dell'essere con il conoscere, fino al regno della pace e della volontà negata, e, oltre ancora, verso l'altra riva, di cui parlano gli indù. Ma proprio qui è il miracolo: quanto incomprensibilmente integra e infrangibile doveva essere la natura di Schopenhauer, se neppure da questo anelito poté essere distrutta e neppure indurita. Che cosa ciò significhi ognuno lo capirà secondo la misura di ciò che egli stesso è, ma nessuno di noi potrà capirla in tutta la sua gravità…

Ognuno ha in sé una unicità produttiva, che costituisce il nucleo del suo essere; quando, però, diventa consapevole di questa unicità, intorno a lui appare uno splendore insolito, tipico di ciò che è straordinario. Per i più ciò è qualcosa di insopportabile: perché, come ho detto, sono pigri e perché a quella unicità è legata una catena di affanni e di pesi. Non c'è dubbio che, per chi è straordinario e sgrava di questa catena, la vita deve perdere quasi tutto ciò che ci si aspetta da lei nella gioventù: serenità, sicurezza, leggerezza, onore; la sorte dell'isolamento è il regalo che gli fanno gli altri uomini; deserto e caverna gli si offrono ovunque voglia vivere. Allora stia ben attento a non farsi soggiogare, a non deprimersi o immalinconirsi.

6.

Il singolo deve utilizzare le sue lotte e il suo anelito come l'alfabeto con cui egli può ora decifrare le aspirazioni degli uomini. Ma anche qui non gli è lecito fermarsi, da questo gradino deve salire a quello superiore, la cultura pretende da lui non solo quell'esperienza intima, non solo il giudizio sul mondo esterno che scorre intorno a lui, ma, infine e soprattutto, l'azione, cioè la lotta per la cultura e una presa di posizione ostile verso influenze, abitudini, leggi, istituzioni in cui non riconosce la sua mèta: la generazione del genio.

Esiste infatti un tipo di cultura abusata e asservita basta guardarsi intorno! E proprio le potenze che, con maggior zelo, ora favoriscono la cultura, lo fanno con secondi fini e non la praticano con sentimenti puri e disinteressati.
Vi è in primo luogo l'egoismo degli affaristi che ha bisogno del sostegno della cultura e che, per ringraziamento, a sua volta l'aiuta ma in pari tempo vorrebbe, in ciò, prescriverle sia lo scopo che la misura. Da questa parte deriva quell'affermazione e quella concatenazione di concetti, oggi molto in voga, che più o meno dice così: quanta più conoscenza e istruzione possibili, e quindi quanto più bisogno possibile, e quindi quanta più produzione possibile, e quindi quanto più guadagno e felicità possibili così suona la formuletta tentatrice. L'educazione verrebbe definita dai suoi stessi sostenitori come quel discernimento per cui si diventa completamente attuali, nei bisogni e nella loro soddisfazione, con cui, però allo stesso tempo, si può disporre di tutti i mezzi e di tutte le vie per guadagnare denaro nel modo più facile possibile.

Ancora non sono state elencate tutte quelle potenze, dalle quali viene certo favorita la cultura, senza che tuttavia se ne riconosca il fine, e cioè la generazione del genio; tre le abbiamo dette: l'egoismo degli affaristi, l'egoismo dello Stato e l'egoismo di tutti coloro che hanno motivo di fingere e di nascondersi mediante la forma. In quarto luogo indico l'egoismo della scienza e la natura tutta particolare dei suoi servitori, gli scienziati.

Chi al giorno nostro, come maestro, è in grado di schiudere un campo in cui anche le teste più limitate possono lavorare con un certo successo, diventa in brevissimo tempo un uomo famoso: tanto è grande la folla che subito si accalca intorno a lui. Certo chiunque tra questi fedeli e riconoscenti è una calamità per il maestro, perché tutti costoro lo imitano, e proprio le sue magagne appaiono ora smisuratamente grandi ed esagerate, perché spiccano in individui così limitati, mentre, al contrario, le virtù del maestro appaiono rimpicciolite, nella stessa proporzione, nello stesso individuo.

Si serve la verità se essa è in condizione di favorire direttamente stipendi o posizioni più elevate, o almeno di assicurarsi i favori di coloro che debbono elargire pane e onori. Ma si serve solo questa verità; perciò si traccia un confine tra le verità vantaggiose, a cui molti servono, e le verità non vantaggiose: a queste ultime solo pochissimi si dedicano perché per esse non vale il principio «ingenii largitor venter».

Per quanto lo Stato faccia valere ad alta voce i suoi meriti verso la cultura, la promuove per promuovere se stesso e non comprende un fine che sia superiore al suo benessere e alla sua esistenza. Ciò che gli affaristi vogliono quando incessantemente chiedono istruzione e cultura, è alla fin fine proprio un affare. Se coloro che hanno bisogno delle forme si ascrivono il vero e proprio lavoro per la cultura e, per esempio, credono che tutta l'arte sia cosa loro e debba servire alle loro esigenze, è chiaro allora che essi, nel momento in cui affermano la cultura, affermano solo se stessi: e cioè neppure loro sono usciti da un equivoco.

Ma ciò che fin dal principio si oppose all'effetto e alla diffusione della sua dottrina, ciò che infine con tutti mezzi tenta di rendere vana anche una tale rinascita del filosofo è, per dirla in breve, la stortura della natura umana attuale: perciò tutti coloro che diventano grandi uomini debbono sprecare un'energia incredibile solo per salvare se stessi da questastortura. Il mondo, in cui oggi fanno il loro ingresso, è avvolto nelle fandonie: non necessariamente dogmi religiosi, ma anche concetti bubboleschi come «progresso», «educazione universale», «nazionale», «Stato moderno», «Kulturkampf»: si può dire anzi che tutte le parole generali oggi portano in sé un addobbo artificioso e innaturale; pertanto una posterità più illuminata rimprovererà al nostro tempo soprattutto di essere contorto e deforme per quanto andiamo così superbi della nostra «salute».

8.

Lo Stato non si è mai preoccupato della verità, ma solo di quella verità che gli è utile, o, per essere più esatti, di tutto ciò che gli è utile, sia esso verità, mezza verità o errore. Un'alleanza tra filosofia e Stato ha, dunque, senso solo se la filosofia può impegnarsi ad essere incondizionatamente utile allo Stato, il che significa stimare l'utilità dello Stato più importante della verità. Certo, per lo Stato sarebbe magnifico avere al suo servizio e al suo stipendio anche la verità; ma sa molto bene che è proprio dell'essenza della verità non essere mai a servizio, e non prendere mai mercede. Quindi in ciò che ha, lo Stato possiede solo la falsa «verità», una persona con una maschera; ma questa, purtroppo, non può certo fornirgli ciò che tanto anela dalla autentica verità: la sua legittimazione e santificazione.

Richard Wagner a Bayreuth (Considerazioni inattuali IV, 1876)

1.

Perché un avvenimento abbia grandezza, debbono concorrervi due cose: il grande animo di coloro che lo producono, e il grande animo di coloro che lo vivono. Di per sé nessun avvenimento ha grandezza, neanche quando scompaiono intere costellazioni, popoli periscono, vengono fondati grandi Stati, e condotte guerre con forze e perdite enormi: il soffio della storia spazza via molti fatti del genere come fiocchi di neve. Accade anche, però, che un grande uomo sferri un colpo che si smorzi senza effetto contro una dura roccia: una breve, acuta risonanza, e tutto finisce. La storia non ha da riferire quasi nulla neanche di questi avvenimenti per così dire soffocati. Così, chiunque veda approssimarsi un avvenimento, è colto dal dubbio segreto se coloro che lo vivranno ne saranno degni.
Su questa corrispondenza di azione e ricettività si conta e ad essa si mira sempre, quando si agisce, nelle più piccole come nelle più grandi cose; e colui che vuole dare deve veder di trovare destinatari che rendano giustizia al senso del suo dono. Appunto per questo anche la singola azione persino di un uomo grande non ha grandezza, se essa è breve, monca e sterile, giacché nell'istante in cui egli la compiva, doveva comunque mancargli la convinzione profonda che essa fosse necessaria proprio in quel momento: non aveva preso la mira con sufficiente perspicacia, non aveva individuato e scelto il momento con la dovuta precisione: si era fatto dominare dal caso, mentre l'esser grandi e l'avere il senso della necessità sono cose strettamente collegate.

Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi (1878)

Volume I

241.

Genio della cultura. - Se qualcuno volesse immaginare un genio della cultura, di che natura sarebbe costui? Egli maneggia gli strumenti della menzogna, della prepotenza, dello spregiudicato egoismo con tanta sicurezza, che lo si dovrebbe definire unicamente come un malvagio essere demoniaco; ma i suoi scopi, che qua e là si intravvedono, sono grandi e buoni. E’ un centauro, a metà bestia, a metà uomo, e per di più ha sul capo ali d’angelo.

246.

I ciclopi della cultura. - Chi guarda i bacini frastagliati in cui un tempo si formarono ghiacciai, ritiene quasi impossibile che verrà un giorno in cui allo stesso posto si stenderà una valle di prati e boschi, attraversata da ruscelli. Così è anche nella storia dell’umanità; le forze più selvagge aprono la strada, dapprima distruggendo, ma la loro attività tuttavia è necessaria perché in seguito prendano lì dimora dei costumi più miti. Le terrificanti energie - quelle che son chiamate il male - sono i ciclopi architetti e pionieri dell’umanità.

258.

La statua dell’umanità. - Il genio della cultura si comporta come Cellini, quando fece la colata del suo Perseo: la massa liquida minacciava di non bastare, e purtuttavia lo doveva: così egli vi gettò dentro chiavi e piatti e tutto quel che gli capitava tra le mani. Allo stesso modo, quel genio butta dentro errori, vizi, speranze, deliri e altre cose di vile e nobile metallo, perché la statua dell’umanità deve venir fuori finita; che importa se, qua e là, si è usato materiale più scadente?

263.

Talento. - In un’umanità così altamente sviluppata come quella di oggi, ciascuno riceve dalla natura accesso a molti talenti; ciascuno possiede talento innato, ma solo pochi possiedono dalla nascita e ricevono dall’educazione quel grado di tenacia, costanza ed energia con cui si diventa effettivamente un talento, dunque si diventa ciò che si è, ossia lo si scarica in opere e in azioni.

Volume II

110.

Il genio predatore. - Il genio predatore nelle arti, che sa trarre in inganno anche spiriti sottili, nasce quando qualcuno sin da giovane considera senz'altro come libera preda ogni cosa buona che non sia chiaramente protetta dalla legge in quanto proprietà di una determinata persona. Ora, tutte le cose buone di epoche e maestri d'altri tempi stanno liberamente sparse qua e là, circondate e protette dal riverente timore di quel pochi che le riconoscono; a questi pochi si oppone quel genio, forte della sua mancanza di pudore e accumula una ricchezza che a sua volta produrrà timore e venerazione.

155.

L'organetto nascosto. - I geni sanno meglio dei talenti nascondere l'organetto, grazie al loro drappeggio più ricco: ma in fondo anch'essi non fanno che suonare sempre i loro vecchi sette pezzi.

156.

Il nome sul frontespizio. - Che sul libro compaia il nome dell'autore oggi è costume, quasi obbligo; eppure è una delle cause principali per cui i libri hanno tanto poco effetto. Se infatti sono buoni, valgono più delle persone, in quanto loro quintessenza; ma non appena l'autore si fa riconoscere attraverso il titolo, da parte del lettore la quintessenza viene di nuovo diluita con l'elemento personale, anzi personalissimo, e lo scopo del libro viene in tal modo vanificato. L'ambizione dell'intelletto è di non apparir più individuale.

200.

Originale. - Non vedere per primi qualcosa di nuovo, ma vedere come nuovo ciò che è vecchio, conosciuto da tempo, visto e ignorato da tutti, è quello che contraddistingue le teste veramente originali, il primo scopritore è generalmente quel comunissimo e insipido esaltato che è - il caso.

407.

Il vanto di tutti i grandi. - Che importanza ha il genio, se non comunica a chi lo contempla e lo venera una tale libertà e altezza di sentimento da non aver più bisogno del genio! - Rendersi superflui - questo è il vanto di tutti i grandi.

Al di là del bene e del male. Preludio ad una filosofia dell’avvenire (1886)

248.

Esistono due tipi di genio: uno che vuole soprattutto generare e genera e un altro che si lascia volentieri fecondare e partorisce. E allo stesso modo ci sono tra i popoli geniali quelli ai quali è toccato in sorte il problema femminile della gravidanza e il compito segreto della formazione, della maturazione, del compimento i Greci per esempio furono un popolo di questo tipo, e così i Francesi ; e altri che devono fecondare e diventare l'origine di nuovi ordinamenti di vita, come gli Ebrei, i Romani e, chiediamocelo in tutta modestia, i Tedeschi? Popoli tormentati e incantati da febbri sconosciute e inarrestabilmente spinti al di fuori di sé, innamorati e avidi di razze estranee (di quelle che si «lasciano fecondare» ) e perciò avidi di dominio come tutto ciò che si sa colmato di forza creativa e di conseguenza «di grazia divina». Questi due tipi di genio si cercano come l'uomo e la donna; ma essi si fraintendono anche, l'uno con l'altro come l'uomo e la donna.

La volontà di potenza. Scritti postumi per un progetto (1887-1888)

212.

Ineliminabile gusto della prostituzione nel cuore dell'uomo: da qui il suo orreur della solitude. - Il veut être deux..
Il genio (l'homme de genie) veut être un, donc solitaire.
La gloire, c'est rester un, et se prostituer d'une manière particullère.